Le città fabbricano illusioni,
trascinano cancrene sui dorsi
delle nostre mani.
Cambiamo faccia, colore degli occhi
disabilitiamo ogni battito del cuore
per ricongiungerci al fallace scampanellio
di piazze, chiese e cenacoli.
E come in una parata di addomesticate figure,
dobbiamo fare bene la nostra parte,
spogliando noi stessi di noi stessi.
Sulle labbra ci fluttuano
fantomatiche promesse,
ed ereditiamo un avvenire mercificato,
ripulito dagli avanzi sbiaditi
di quelle che furono fanciullesche speranze.
Le città fabbricano soldati spauriti,
ma armano noi, la gente comune,
in vista d’irrisorie battaglie
per una supremazia già risolta
sulle scrivanie o dentro ville con piscina.
Ci offrono abbondanza di frutti
svuotati dal dentro,
comprimono le nostre vite in
un unico blocco di schiavizzanti abitudini.
Ci circondano, ci attanagliano,
ci ghermiscono col muso di mastini inferociti,
ci abbandonano con la negligenza
di vecchie e inaridite zitelle.
Le città collezionano feretri,
sepolcri che lacrimano d’indifferenza,
e alzano polveroni per imbiancare
nuovamente strade insozzate,
o lunghi viali dove l’erba
è stata strappata ancor prima di crescere.