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Pubblicata il 22/01/2004
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Vivo un’esistenza d’illusioni e sogni irrealizzabili... immaginando l’impossibile. Convincendomi del tutto futuro, scacciando il fantasma del nulla. Un romantico costretto ad illuministici pensieri perversamente trovato a crogiolarsi nella sua farsa.
E quando quel conturbante sogno terminerà, quando mi desterò urlando, anche l’uomo che porta il mio nome cesserà d’esistere.
E giacerò con mia sorella, che di tutte le persone è la più simile a me; e quindi la più sudicia nell’anima e nera e licenziosa e lasciva.
Per sentirmi insano e disturbato, per sentirmi ancor più immorale.
Scappando delirante da coloro che vendono le torri d’avorio per trenta denari.
Vivo in questo mondo d’oro che possiede tutto e tutto mi concede, ma ancora insoddisfatto m’aggiro in esso.
Le eventualità del reperibile ascendenti, affascinanti senz’altro, compiutamente dissanguate.
Maturo nell’età di mezzo della storia che come nessun’altra offre agiatezza, ma instancabilmente lamento dissesti concernenti il mio ego e la sua posizione nella società.
Vedo il verme che rode il tronco di platino dell’albero dell’evoluzione con l’occhio sempre critico dello scontento trovandovi unicamente cancrene.
Il voler per forza o per necessità figurarmi quale visore dell’usualmente non guardato e compreso.




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a C.

Vedersi sfilare accanto
l’ennesimo angelo dorato e bronzeo
[ad un sol tempo
e già prospettarsi le sue ali coriacee di pipistrello celate sotto occhi d’aprile
ma ancor più lancinante il dolore
dovendo ammirare ed agognare
quelle bianche di colomba a vista
ed il ventre piatto ed armonico ed aromatico
ed il sorriso imbarazzato
sospeso sullo stagno.
Ma ancor se possibile peggiore
il costruirsi nuovi castelli di cristallo
sulle rovine dei precedenti,
le fondamenta poste su strali di fumo
e nebbie di pensieri sfumati.
E strane posture tristemente note
che lasciano presagire lapidi
e trincee insanguinate
ove giacqui un anno or sono.





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Ridicolmente ingabbiati e giudicati da un tribunale inquisitorio interiore
L’orgoglio livido e cinereo batte il suo martello da giudice supremo
E noi tutti come scimmiette balzellanti impaludati in paramenti da imputato
Ci pieghiamo a quel verdetto
che tanto tememmo e sperammo inverso quasi inconsci di averlo, in fondo, deliberato noi stessi
Prostriamo e prostituiamo il nostro volere
ed i nostri istinti desiderativi ad un giureconsulto con la nostra medesima fattezza
Diventiamo puttane del nostro stesso denaro e membro
Freniamo l’impetuoso fiume del noi stesso con le fittizie dighe del proprio
Combattiamo un’insensata guerra contro uno specchio sporco
Autoimponendoci il peggio in favore dell’apparenza nei confronti di altri
Mentre basterebbe la volontà soggettiva per vivere in spontaneità
Ed essere degli dei il supremo e dei mari il conquistatore
E ballare e gioire sulle tombe interrate dei miseri





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Ritmi jazz e blues che serpeggiano nell’aere soffuso e pesante
Pesante come un’afosa notte estiva così rintronata nella baia
Persino gli angeli ubriachi cadono come foglie di catrame dai tetti
Sopra i quali s’erano appollaiati.
Come quel piccolo bar nei pressi del porto, l’insegna in ferro battuto ed una donna finita chissà come lì; a compiangersi ed a farsi compiangere
Mentre suonando e sbuffando il traghetto passa nello stretto carico di sogni e passeggeri
E siamo in fondo tutti seduti in quel bar a piangerci addosso senza sapere di farlo
E siamo in fondo tutti appoggiati ai parapetti di quel traghetto
Mentre nelle strade nugoli di compratori si danno battaglia
Almeno alzassero gli occhi per vedere come i grattacieli che li circondano si perdano nella notte, lassù, in alto
Perché lo sanno, loro, che di notte, se alzi lo sguardo, non la vedi la fine di quei grattacieli
Di giorno è diverso: vedi tutto e subito; ma di notte no… è tutto diverso
Ci si perde così in bicchieri di wiskey on the rocks serviti dall’amico di turno mentre le luci nel corso illuminano la vita di milioni di persone
E i cappotti corrono qua e là nella pioggia di angeli ebbri; sembrano instancabili quelli, loro,
Ma non le vedono le bottiglie ordinatamente allineate dietro al bancone?
Piano Bar, 25° piano…
Prego si accomodi, vuole un tavolo accanto alla finestra?
E il pianista comincia a suonare, lui, scostante nella sua velatura
Mentre 90 metri più in basso non sei nessuno
Mi ricorda Gershwin tutto questo turbinare
E devi correre, non credere, tenendo a due mani pacchi e pacchetti
Ma il Jazz, quello vero, in quel trambusto, sono in pochi a sentirlo.

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