Poesie. Parole diverse. Parole in versi. Si scrive a chi si ama, a chi si odia, un’ipallage e un poliptoto, suoni lontani, dissonanti, sconosciuti. Il gusto di amare e di perdersi tra le righe, dove c’è il significato dei nostri pensieri, dove i sentimenti prendono corpo. Prendono forma. Una forma vaga e indefinita, che trasciniamo tra ritmi cadenti, tra i denti che mormorano sillabe disgiunte. E si schiudono parole usate eppur lontane, tra le righe segnate col nero della nostra visione. Un’emozione o un momento distante, distinto, ridondante. Che cosa fa sì che noi si diventi cadetti di una nobile arte, le carte che piano piano caliamo sul panno del mondo e vediamo soltanto di sguincio diventare per noi un metro, una musica, una sinfonia? Afasia verso un mondo non nostro, nascosto tra i verdi cespugli del mare, un nuotare sempre tra i flutti, che strana parola, distrutti da tanto viaggiare? Può essere tutto e il suo opposto, un grido nascosto o soppresso a cui spesso gettiamo le mani per stringere niente e la gente lì attorno che guarda e non vuole afferrare. E il farsi più fitto di rime mi opprime e mi abbraccia in un ballo pazzesco e non riesco più a dire se quello che scrive sia io o uno iato, sia un disco incantato che gira in eterno su un perno di vita che arriva e divampa e poi scappa, codardo, al tardo bagliore di un raggio di vita. Salita e discesa, come un gioco innocente, si danno la mano e fremente è lo sguardo, mentre il polso ormai insano, mi chiede di dargli riposo. Ma il vorticare dei versi ormai colse i diversi suoi aspetti del fare poesia, malattia innegabile e nota che ruota attorno alle menti e per arrestarsi a lui serve soltanto l’incanto del dolce silenzio. Riporre l’amore o l’ardore del fuoco nel petto è tal come scriver di getto, è cosa improvvisa, a cui non si arriva né per costrizione, né per intuizione o per colpa di orribile mostro, ma sol se finisce l’inchiostro.