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Pubblicata il 20/06/2023
stamane sono allergico al presente,
mi sento implodere e dilaniare,
non c’è modo di essere evasivo o limitarne l’impatto e lascio che questa strana sensazione
mi conduca ad un lontano ricordo:

ho visione di labbra e di mani accessoriate da ori e da argenti,
di banchi di scuola,
di ingorghi di gesti e di passi,
della mia solitudine ancorata vicino alla finestra dove scorgo il volo obliquo delle foglie,
di un’ebbra pareidolia ch’io mi appresto a rendere tangibile guardando le nuvole deformarsi nel cielo,
di puerili amori fatti di baci veloci e candidi,
di rossori e di parole incerte,
di stupide e sollazzanti scazzottate al di fuori dei fumosi bar o nei piccoli parchi del sobborgo,
di grida e di bottiglie rovesciate sul tavolo,
di rimproveri e di schiaffi ripetuti.
ora mordo il distacco delle cose e mi vedo intento a raggomitolarmi e a misurare la mia momentanea assenza.
piango e mi esilio dove nulla ha un volto e un peso.
attimi che scorrono e scorrono rincorrendosi all’infinito...
cerco di riprendere contatto con la realtà ma serrando gli occhi mi struggo ripensando ad una diversa fase della mia esistenza.
quest’ultima voglio riviverla con meno apprensione,
non tollero che ci sia la stessa convulsa tessitura di immagini proposta poc’anzi,
però esse da subito appaiono più dolorose e mi proiettano verso l’apice della mia pubertà.
forse,
se la memoria non m’inganna,
a quei sedici anni in un giorno d’aprile,
potrei azzardare che fosse un sabato:

mi vedo leggermente spettinato,
i capelli resi più biondi dal primo sole,
intenso,
quasi estivo,
con quel solito alone malinconico ad attorniarmi,
lo stesso che ancora oggi mi attanaglia come un qualche cosa di soffocante,
ma dove in ogni caso mi dona quel tratto peculiare.
ebbene quel sabato capii che la malattia di colui che mi era sempre stato accanto e che mi aveva concesso molte premure stava velocemente regredendo.

veemente continuo di quelle ore assai tristi a rimembrarle senza che ne possa frenare il loro flusso:

mi trovo a metà del letto,
le tapparelle abbassate,
dei fiori freschi nella brocca,
la abat-jour sul comodino accesa,
stringo i suoi polsi freddi e sottili,
il mormorio della sua voce viene completamente taciuto dal passaggio di qualche aeroplano,
fuori la pioggia precipita flebile e quieta quanto basta per stabilizzare il mio respiro e propormi speranzoso alla notte;
ma nel sonno il viso si irrora,
le pupille sprofondano nelle cavità oculari,
l’onirico circuisce pentagrammi di note distorte nei miei timpani sospesi ed in frantumi.
rimango genuflesso di fronte all’altare della sua definitiva resa.
ai primi bagliori non posso prestare orecchio al suo consueto canto mattiniero,
alle sue risa rumorose,
ai suoi racconti folli e sconclusionati,
al vorticare delle sue mezze verità,
comprendo ch’egli non si prodiga più a mantenerli vivi in funzione del mio acceso desiderio.

ch’io possa ancora dilaniarmi e implodere in questo opaco presente che mi trasfigura e mi mortifica!

era certo che da lì non avrebbe vissuto abbastanza per correggere e consigliare il mio processo di crescita.
entrambi gettammo la scrematura di questo anelito nelle cerniere di un sogno che vagava tra gli angusti spazi di un addio oramai conclamato.
defunse due giorni più tardi tra le nebbie della sua mano aperta e del suo viso sconfitto.
mi fu spezzata ogni comprensione e usai un orpello di circostanza per attraversare la folla e la ventura quotidianità.
forse mi spersonalizzai e intrapresi quella strada ignaro che fosse solo una fuga o un rifugio dalle deboli fondamenta.

negli anni susseguirono altre sciagure di impronta meno impattante e altri amori destinati nel breve ad esaurirsi.
uno di quest’ultimi colse l’opportunità di frenare la mia più infida autocommiserazione.
io aitante come lo è una gioventù portata agli scrimoli dell’eccesso,
lei profana nel suo libero esibizionismo e nell’inettitudine per una certa obbedienza impartitale dal suo patriarcale patrigno,
fui spinto senza forzature ai versi di Corbière;
tutt’ora alcuni di essi mi si riversano con vigore nella mia mente:

-Un turbine... è questa la morte? le vele ammainate? e sbattute dall'onda!
- Quel che si dice toppare...?Un violento colpo di mare, poi l'alta alberatura? che sferza i grossi flutti
- quel che si dice affondare.-

da una pagina consunta che memore mi è cara:

alla luce della luna, vicino al mare, nei luoghi della campagna isolati, si vedono, immerse in riflessioni amare, tutte le cose rivestire forme gialle, indecise, fantastiche. L’ombra degli alberi, ora in fretta, ora lentamente, corre, viene, riviene, in forme diverse, appiattendosi, incollandosi contro la terra. Un tempo, quando ero trasportato sulle ali della giovinezza, ciò mi faceva sognare, mi pareva strano; ora, vi sono abituato. Il vento geme attraverso le foglie le sue note languide, e il gufo canta il suo grave lamento, che fa rizzare i capelli a chi l’ascolta. Allora, i cani, resi rabbiosi, spezzano le loro catene, fuggono dalle fattorie remote; corrono per la campagna, qua e là, in preda alla follia

lautréamont
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