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Pubblicata il 16/12/2019
In principio fu Caos.

giunse, da presso, la Terra.

essa generò:

un nero manto trapuntato di stelle,

con cui si avvolse.

rocciose vette, picchi innevati,

con cui si cosparse.

ampie distese d’acqua, oscuri abissi silenti,

con cui si bagnò.

poi,

come una voragine vulcanica erutta lava,

bollente e furiosa,

ora, sulla spiaggia sabbiosa,

lambita dai mari,

la Terra, dai suoi anfratti, eruttò una Donna.

nuda, ma coperta da verdi germogli,

si stese,

rimirando il nero manto trapuntato di stelle,

sull’umida rena,

lambita dai mari.

aveva seni pieni e rotondi,

prosperi fianchi, morbidi e larghi,

gambe formose, liscia era la pelle.

i capelli lunghi e scuri, intorno al capo,

erano disseminati,

sulla silicea battigia,

lambita dai mari.

e rimirando il nero manto, sopra di lei,

dischiuse le gambe,

le morbide labbra, umide, ora lambite dai mari.

l’Uomo del Cielo, lassù,

dal nero manto trapuntato di stelle,

la vide.

ne ammirò il giunonico corpo e si riempì di desiderio.

ne scorse il sesso bagnato e si inturgidì di eccitazione.

discese su di lei. E lei lo accolse.

come due amanti attendono di assaggiare,

da lungo tempo,

l’uno il corpo dell’altra,

così,

sulla spiaggia sabbiosa, battuta da pallida Luna,

l’uomo e la donna,

unendo i loro petti, si strinsero.

baciando, succhiando, mordendo,

l’uno la pella dell’altra.

lui, gonfio e possente, fu dentro di lei, fradicia e calda.

sangue gocciolò sull’umida rena, candida di Luna.

il Dolore divenne Piacere.

e le onde che sconvolgevano i mari, gonfie e possenti,

si schiantavano sui loro corpi, di passione frementi.

all’apice, con il suo caldo seme,

le irrorò il fertile ventre,

lì,

sulla silicea battigia,

il pallore lunare sulla sua madida schiena.

in lontananza l’Aurora precedeva il Giorno,

e allora,

mordendo e baciando, l’Uomo del Cielo,

da quel florido corpo sazio d’Amore,

s’accomiatò,

in fuga con la Notte, sua amica.

al giungere delle tenebre, appena l’ampia distesa d’acqua inghiotte, del Sole, l’ultimo raggio,

sarebbe tornato, promise, colmo di desiderio.

ma ora, con il Sole nascente,

che pigro allunga il suo primo raggio, sull’ampia distesa d’acqua,

si illumina il corpo, sfiancato d’Amore, della fertile Terra.

il seme del Cielo attecchiva dentro di essa.

e, molte notti d’Amore dopo,

molti figli concepì ancora.

il Cielo crudele, però,

affamato d’Amore,

tratteneva nel ventre di lei,

i figli nascenti.

per godere lui solo, del corpo di lei,

nell’amplesso selvaggio.

era lui, che dai grossi seni,

sempre più gonfi, sempre più doloranti,

le succhiava la linfa,

ai figli nascenti, destinata a nutrirli.

il Piacere era Dolore.

era lei, durante il Giorno,

con lui, lontano insieme alla Notte,

che preparava i figli,

prigionieri del suo ventre.

e uno di loro, prigioniero nel ventre materno,

figlio ribelle, signore del Tempo,

apprestò la vendetta.

per i suoi fratelli, per Rea sua amata,

il giogo crudele, del Padre crudele,

avrebbe distrutto.

ignaro che stessa sorte avrebbe subito,

da suo figlio ribelle.

per i suoi fratelli, per Era e il Dominio,

il ventre famelico, del Padre crudele,

avrebbe scucito.

e a sua volta,

un figlio tra i tanti,

nel ciclo infinito,

lo avrebbe spodestato,

se in moglie, Teti prendeva.

ma questo non accadde,

teti generò un Eroe a un mortale,

e tutt’ora,

nelle vuote aule a lui adibite,

sull’Olimpo montuoso,

siede nel silenzio, degli Dei il Padre.

zeus.

dimenticato, dimentico degli Uomini.

ma adesso, nel tempo di Crono,

lui stesso si mise a mestiere.

fu da selce silicea,

da Madre stuprata guidato,

che con mano artigiana,

intagliando e affilando,

una falce ottenne, crudele.

si nascose nelle tenebre,

la Notte portava suo Padre.

fu quella,

della libidine selvaggia,

la fine tremenda.

mentre il grosso fallo si intingeva nell’umida fessura,

consunta, slabbrata, dall’uso violento,

da dietro, il figlio ribelle,

con mano nerboruta ghermì lo scroto,

pieno di seme creatore.

strinse e tirò via il Padre dal corpo della Madre.

con mano spietata, prolungata in lama crudele,

sferrò il colpo, mordendo la carne,

dilaniando il tessuto, mozzando i genitali.

uno scroscio di sangue dilagò,

schizzando il figlio ribelle.

il Padre castrato,

rotolò a terra, impotente,

fuggì via, morente.

con il grosso membro,

in mano parricida ben stretto,

urlò di vittoria selvaggia,

il figlio ribelle.

poi lo gettò nei mari e volse le spalle all’ampia distesa d’acqua.

fu inghiottito, il fallo,

nell’abisso silente, ma,

prima di perdersi sul fondo,

gocciolò caldo seme.

le goccie si mescolarono alla fonte di vita.

il Mare si agitò,

sull’ampia distesa, le onde si dimenavano,

schiantandosi sulla piatta superficie.

vortici risucchiavano i mari,

fondali nudi emergevano fradici e deserti.

poi l’acqua,

tornando a ricoprire la Terra,

in ampie mani,

si scontrava con tra sè.

alte colonne d’acqua, nell’impatto, salivano,

il Cielo grigio toccavano,

e pioggia, lacrime di Padre,

fitta e sofferta,

ricopriva quel mondo bagnato.

poi,

mentre due creste, d’onda marina,

preparavano lo scontro,

la pioggia cessò e il Sole si levò.

i muraglioni d’acqua si schiantarono insieme e la bocca del Mare si spalancò con rabbia selvaggia.

e con forza,

in alto, dalle profondità marine,

schizzò la Bellezza in forma di Donna.

si posò sulla superficie del mare, calmatosi nella furia del parto.

il corpo ruscellava d’acqua,

luccicava al Sole nascente.

lei ne spruzzò un getto dalla bocca magnifica,

la malizia innocente nel volto,

gli occhi acceccati dalle ciglia, bagnate e piegate.

stirò le braccia, magra e affusolate, sopra la bionda testa, ignara di tenderle al Padre lassù.

i seni alti e cesellati si protesero in fuori.

rigagnoli intrecciati le colavano dal viso,

lungo il pallido collo,

sull’ampio petto,

fino alla punta dei rosei capezzoli.

lì l’acqua si fermava, si accumulava,

sulle turgide mammelle,

e cadeva sul ventre, piatto,

lungo i fianchi teneri,

bagnando il biondo cespuglio sul Monte,

giù lungo il vergine solco,

si perdeva intorno alle coscie tornite,

tracciando sentieri veloci,

sui glutei perfetti, svettanti sulla limpida pozza.

cadeva, l’acqua,

tornava a casa, nell’ampia distesa,

cadeva, gocciando sui piedi minuti.

gli occhi grandi, ora,

volgeva in ogni dove, nell’orizzonte deserto.

curiosa e piena di Amore.

ben presto, dalle oscurità marine,

le bestie del mare salirono a galla,

cantando della Bellezza di lei.

poi, da dietro,

un vento, con ali leggere,

soffiò sulla sua candida schiena,

in avanti la spinse.

laggiù,

sulla spiaggia sabbiosa,

su Cipride terra,

venere Bella sarebbe approdata.

e ricolmi,

già i mari,

e presto la terra,

dalla sua bellezza e dal suo amore,

saranno, di Vita
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