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Pubblicata il 14/10/2013
Si chiamava Francesco ed era mio nonno. Non l'ho mai conosciuto perchè morì venticinque anni prima ch'io nascessi. Osservando però il ritratto fotografico gigante appeso al muro accanto a quello di mia nonna, quella si che l'ho conosciuta, mi è sempre entrata nell'anima la sua fisionomia al punto tale che è come se fossi vissuto con lui. E' la curiosità dell'adolescente quella che porta a considerare parenti mai visti di persona a fantasticarci sopra al punto tale da immedesimarsi in loro e nel tempo in cui vissero. Su questa base ascoltavo i racconti della mia cara nonna, precoce vedova mai risposatasi benchè rimasta sola in un'età dove la donna , se ama veramente l'uomo che ha scelto, esce letteralmente pazza a causa della grave perdita. Era lei che mi raccontava la vita di mio nonno ed io ad ogni sua parola associavo quel ritratto gigante che sembrava di suo animarsi al punto tale da creare un vero e proprio film nella mia mente, immaginario si ma profondamente reale. E' facile dire che erano altri tempi quelli in cui il valore dell'amore vero era un qualcosa di eterno ed indissolubile, di sacro per così dire...d'altronde in tempo di guerra la follia della politica, degli stati e delle nazioni non poteva che sfociare in questo: nel loro piccolo gli esseri umani, uomini e donne, si amavano in modo più intenso e carismatico, come a crearsi una piccola trincea d'affetto e sicurezza da contrapporre all'assurdità guerrigliera dei potenti.

Era un uomo abbastanza alto e dai lineamenti puliti, occhi corvini penetranti e scavati, capelli a spazzola pulitissimi e curati, abbigliamento modesto da contadino ma elegantemente decoroso e sincero quello che mi guardava dal quadro in modo penetrante ed enigmatico ma espressivo come se volesse dirmi qualcosa da quella bocca delicatamente chiusa e sormontata da baffetti ordinati e curati. Il fatto che quella foto fosse stata scattata un mese prima della sua morte in uno dei suoi ultimi momenti felici con la consorte quando avevano deciso di “regalarsi” un ritratto come si deve dal fotografo del paese mi impressionò decisamente soprattutto pensando al fatto che era privo del braccio destro (regalo della guerra) e che il cancro lo stava divorando velocemente: nonostante la menomazione e la malattia mio nonno era in grado di gestirsi da solo in tutto e per tutto, senza pesare a nessuno tantomeno alla moglie...tranne che per il nodo della cravatta....mia nonna sapeva fare il nodo alla cravatta!

Classe del'96 (1896 intendo) apparteneva a quella categoria di ragazzi che furono rapiti dalla vita normale per essere catapultati ignari nella follia della prima guerra mondiale, crocevia di sofferenze inaudite per i forzati protagonisti, sofferenze la cui dimensione non era appieno percepita dai “civili” lontani dal teatro della guerra: erano ragazzi destinati al massacro e l'odore del loro sangue non raggiungeva i benpensanti cittadini lontani dalle trincee, impegnati a pontificare strategie politiche guerresche al relativamente “sicuro” focolare domestico.

Lasciò Giulia (mia nonna), con un sorriso, quello stesso che le aveva regalato la prima volta che la vide ed al quale lei in sintonia di sentimenti aveva risposto allo stesso modo: sorridendo. Si volevano bene perchè quando si vedevano cominciavano a ridere....e quando si ride assieme vuol dire che si sta bene insieme: il passaggio all'innamoramento ed all'amore compiuto è pura naturale formalità come il salto dell'acqua d'un ruscello da un punto più alto ad uno più basso.
La congedò con un abbraccio promettendola di sposarla al ritorno, cosa che effettivamente fece.

Partì dal profondo sud per combattere per la patria, lui che non era mai uscito dalle cinta del comune rurale pugliese dove viveva e raggiunse i freddi confini del nord, seppellito in una trincea a sparare ad altri ragazzi come lui, a non sapere più distinguere il giorno dalla notte perchè non si dormiva mai lungo la notte della ragione persa nell'oscurità della follia. Assalti alla cieca, spesso storditi dai cordiali alcoolici,commilitoni straziati dai proiettili calibro nove da guerra oppure da schegge di granate e perfino la decimazione....soldati che uccidono i propri commilitoni a sorte per ordine dei generali allo scopo di “infondere” coraggio alla truppa, come a dire che se non attaccate e non vi ammazzano ci pensiamo noi a farvi fuori a sorte al rientro.
sopravvisse a tutto questo il soldato Francesco.
sopravvisse a quella guerra planetaria, la prima mondiale, ibrido di violenza a cavallo tra le tecniche belliche passate ma tristemente aperta a innovazioni guerrigliere più moderne e distruttive.
sopravvisse a tutto questo il soldato Francesco, forse il pensiero di ritrovare Giulia al suo ritorno alleggeriva gli incubi dei giorni di guerra col sogno d'un miraggio d'amore.
sopravvisse a tutto questo e non gli parve vero, tre giorni prima del congedo, trovandosi nelle retrovie della trincea apparentemente più “tranquilla” quando ormai la guerra era bella e vinta, di gustarsi un pezzo di cioccolata fondente che si ritrovava nella “ricca” razione che le cucine dell'esercito avevano fornito ai soldati “vincitori”. Era un piacere più unico che raro quello: nei tre anni in trincea passati accanto alla morte, al gelo, al caldo asfissiante, all'odore della morte viscerale, alla polvere da sparo coi piedi screpolati e sanguinanti perchè avvolti da calzature improbabili...altro che cioccolata!

forse aveva cantato vittoria troppo presto il soldato Francesco, forse la gioia del ritorno lo aveva un po',giustamente, disinibito dipingendogli sul volto un sorriso di soddisfazione liberatoria che lo portò a sporgere il braccio con la mano e la cioccolata fra le dita sopra il livello di sicurezza della trincea come a sfidare il nemico in smobilitazione dicendogli :“guardate, guardate austroungarici come ce la godiamo qui!”. Evidentemente non tutti gli austroungarici erano smobilitati; uno certamente no e non era certo uno strabico. pam-pam! Il braccio destro fu trapassato da un proiettile devastante, il pezzo di cioccolata saltò dall'altra parte e mio nonno cadde sul terreno delle retrovie mentre un fiotto di sangue usciva ritmico dalla ferita lacera zampillando sul terreno e mischiandosi al fango in una poltiglia rosso-grigiastra. La coscienza andava sempre più dileguandosi nell'oscuro dell'incertezza d'una vita in evaporazione, il nero cominciava a sostituire la luce quando il classico angelo di crocerossina intervenne legandogli il braccio a monte della ferita, arrestando l'emorragia e traducendolo con altri soccorritori nell'infermeria dell'ospedale da campo dell'esercito.

quanto tempo passò non si sa e finalmente dopo un periodo indefinito la coscienza cominciò a rifarsi strada nella sua mente provata e debole; la gioia d'essere ancora vivo ed al sicuro oltrechè il pensiero che la guerra era virtualmente finita e che comunque sarebbe tornato a casa nella dolce murgia barese lo fecero rinascere....ma non completamente. La ferita aveva proprio un brutto colore e la carne dell'arto a cominciare dalle estremità delle dita fino al polso e poi al gomito cominciava inequivocabilmente a virare al bluastro e poi decisamente al nero....cancrena! Febbre e delirio durarono una notte intera in un alternarsi fra incubo e sogno, speranza e disillusione. Al mattino, navigando in un lazzaretto di lamenti e dolori, si presentò davanti a lui il medico militare, nocchiero di quella barca di sofferenza dove certo si tentava di tappare le falle, ma non certamente di riuscirci a tutti i costi, che gli disse senza tanti preamboli in modo decisamente educato: “Soldato Francesco! Vuoi il braccio o la vita?”. Francesco non ebbe molto da scegliere, dato che si trattava d'un baratto crudele ma proporzionato e tutto sommato gli parve l'unica di via d'uscita per rivedere il volto di Giulia e farsi con lei una bella risata. “La vita!”, disse senza pensarci troppo. Lui che quella vita l'aveva conservata miracolosamente fino ad allora mentre molti dei suoi commilitoni l'avevano persa in modo atroce e carnalmente disumano. Era fondamentalmente un ottimista e pensò quindi d'essere stato fortunato nella disgrazia: tutto sommato si trattava di un po' di muscoli e ossa, non di visceri sparpagliati spappolati sul campo di battaglia orfani di menti già volate in paradiso....

tornò dalla sua cara Giulia nel paese pugliese che era ormai il suo paradiso in terra e nel rivedere la sua cherubina angelica aspettante le rise a distanza prima di cingerla stritolandola di felicità con un semiabraccio potentissimo. Lei rise a sua volta e ricambiò con un abbraccio “regolare”: “ti amo come prima, Francesco, anzi più di prima!” disse lei sciogliendosi in lacrime di gioia. Si sposarono qualche mese più tardi.
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un sincero inchino al ricordo , un salutone

il 14/10/2013 alle 11:52

La storia di tuo nonno! Leggere queste storie mi fanno impazzire! Trovo che siano più poesia della poesia frutto di fantasia e immaginazione! Adesso però sono seriamente in crisi! Scrivi molto bene in prosa e non vorrei che avessi sbagliato disciplina alla quale dedicarti! Rido! A parte gli scherzi bella lettura davvero! Adesso ne voglio altre! Ciao Francesco!

il 14/10/2013 alle 19:20

Sono cresciuto con mio Nonno Ciò (Vincenzo)! Bellissimo questo tuo averlo vissuto dentro!

il 14/10/2013 alle 22:38

Mi piace molto la tua forma espressiva, scorrevole e mai banale, pagina che potrebbe inserirsi in un romanzo tutto da leggere. Molto bravo.

il 14/10/2013 alle 23:57
Raf

Complimenti, una bella storia di d'amore per la propria terra, la propria amata, per la vita e ........per un nonno mai conosciuto!

il 15/10/2013 alle 15:50