Era l'occhio sbarrato che tendeva al pallore,
in cerca di nero di pupilla
già sfocata e perduta
in boschi di follie ardenti.
Ed era il fischio del merlo frusciante in fronde
che chiamava un pianto oppure un canto
al monotono dimenarsi della celeste nube.
Il muschio che saturo di sguardi
restava a bagnarsi di suoni;
un riso e uno schiamazzo,
un grido e uno sferrazzo,
che l'artigiano segreto lavorava
nei suoi antri bui della creazione.
Il gatto che affaticato dall'arsura
dimenava le fauci e gli scatti affilati.
Come nel morire di passeri ignari
allo scivolare dell'ombra
che cinge e preda l'anima accorta
e l'anima sorda, legata ad un respiro
di sabbia fiorita.
Era l'attimo prima dello scoppio
che viene da lontano e sorda l'udito.
Il tremante pianto che bagna le mani
e macera vesti e raffredda gesti.
Era il volteggiare del vento al muro
tra sferzate di schianto rapito
e il lancio di sassi all'ombra della fontana.
Scivolare all'attesa della fine,
all'attesa del mattino,
all'attesa della sera,
all'attesa della quiete,
che tremula e sorda non ode voce
e capitola imprevedibile nell'istante
del più lieve sorriso.
A.G.
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