Emily guardò in alto. La cima della montagna era lontanissima. Splendeva avvolta dai sanguigni raggi dell’astro solare. Era bella così avvolta. Chissà quali meraviglie avrebbe potuto ammirare da lassù. Quella visione la prese talmente che il cuore le ebbe un sussulto. Si sentì come mancare le forze. La montagna era così imponente che lei ne avvertiva la potenza soverchiante in modo impossibile. Sentiva le piccole ginocchia che le si piegavano, prive di forza. La testa le girava. Emily percepì il suo piccolo corpo di bimba quasi svanire di fronte a tale immensità. Ne ebbe paura. Una paura gelata. Paura d’una cosa troppo bella e irraggiungibile. Pensò non ce l’avrebbe mai fatta. O se la vertigine l’avesse colta mentre saliva? Sarebbe stato terribile. L’altitudine gliela provocava come un cuore forato. Emily si ritrasse. Non era il caso di salirci su quella montagna. Davvero non lo era. Avrebbe potuto capitarle di tutto. Lei aveva sempre un’incredibile paura di cadere. Si feriva le piccole ginocchia quando cadeva. E rivoli scarlatti le scendevano lungo le gambette macchiando in modo inquietante il suo pallore di bimba di porcellana. A volte aveva pianto a lungo quando era caduta. Un dolore irrazionale l’aveva presa gettandola in preda a incubi troppo bui per una bambina. No. Non l’avrebbe salita. Emily preferì camminarle accanto. Sicuramente avrebbe visto le stesse cose belle. Si, era decisamente meglio girarle intorno. Ma Emily camminava, camminava intorno e non arrivava mai da nessuna parte. Si dimenticò di dove voleva arrivare. Camminava raccogliendo deliziose fragoline di bosco. Annusava l’odore delle felci appena bagnate di rugiada. Camminava in tondo e basta. E ad un certo punto smise di pensare a cosa stava facendo. Come se non si ricordasse più il motivo per cui aveva iniziato a percorrere quel circolare sentiero. Le era consueto e ci si era affezionata. Ma una mattina prestissimo, una mattina dal cielo grigio come una nuvola carica di pioggia, cominciò a sentirsi stanca di quel suo andare in tondo e basta. Ne provò disagio. Perse quasi l’orientamento. Si sentì smarrita. Si sedette per terra tra i fiori gialli come se le forze stessero per abbandonarla. Grosse gocce trasparenti le scivolarono giù dai cigli. Emily si ritrovò piangente senza sapere il perché. L’inquietudine dentro di lei cresceva come un mostro a più teste. E lei non sapeva più perché. Piangeva e basta perché si sentiva affranta. Poi all’improvviso qualcosa la prese. Voltò la testa verso l’alto. La montagna era sempre lassù. Bellissima. Minacciosa. Imponente. Maestosa vegliava su di lei. Era sempre stata lì. Ma lei se ne era scordata. Non aveva più alzato gli occhi al cielo. E di nuovo quel tuffo al cuore la colpì. Si ricordò della sua cima bellissima avvolta di luce. Si ricordò della valle soltanto da lassù visibile. Pensò che da quell’altezza avrebbe potuto ammirare anche le altre montagne che più in lontananza si stagliavano contro il cielo. Il suo turbamento poco a poco svaniva. E si quietava il respiro. Emily pensò che se non avesse provato a salire tutte quelle cose belle lei non le avrebbe mai viste. Sarebbero rimaste solo il sogno sfumato d’una bambina piangente dalle ginocchia troppo piccole per sorreggerle i sogni. Le avrebbe perse per sempre senza mai averle possedute. Pensò non fosse giusto aver paura. Farsi dalla vertigine governare. Fino a perdere l’orientamento. Allora Emily strinse i pugni. Perché paura ne aveva ancora tanta. Strinse i pugni e chiuse gli occhi. Poi dopo aver fatto un grande respirone li riaprì. E lì puntò di nuovo verso il sole. Mise il piedino destro davanti. E piano cominciò a salire.