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Pubblicata il 19/09/2009
I semi viaggiano nascosti

Io venni a vedere, fratelli,
le reti piene di squame d’argento
e gli antri di latte fumante
e i pani di fuoco bollente
e la fatica di travi sotterra.
M’accolsero
occhi di cielo e mare
e una coppa di rosso munta da poco
e il calore splendente di mani.
Oggi non più!
Vi sono tanti che fanno
domande, che vogliono vedere
risposte che temono rabbia e sgomento.
Nostra Madre
squarciata la carne sentì e i coltelli.
Per le strade il sangue correva
con gambe di rapine e di stupri,
e da giovani braccia grondava
tradotte in carri di bestie,
da occhi che tornano a ferire
con vuote luminarie e falso.
Come ieri come oggi
prodiga e tradita la Madre
succo d’arance solari offriva
e latte dai capezzoli biondi dell’uva
e lane e zolfo e il liquore verde dell’oliva
e il cuore d’oro della fragranza del pane
che persino un ricco adorerebbe.
Per questo tutti s’affrettarono
ma con puzzo di cani e pelo di topo
e andarono subito per granai
e violentarono le case
e i loro denti neri azzannavano
anche il profumo della zagara
seminando escrementi,
e vomitando letame come iene
divoravano persino anelli di serpi
ed embrioni di cagne malefiche
che s’erano portate dietro
per annusare l’innocenza.
Come poterono, domandate?
Come possono di nuovo?
Vi dirò, fratelli,
ma non voglio che nasca odio
e che ancora giunga sciagura
dai macellai del diritto.
Quando da caverne e palafitte
i predatori calarono e giacquero
con gli sciacalli acquattati
dietro ai torchi dell’olio
lordi del sangue agricolo
e dietro alle botti tuttavia allegre del vino
avvenne la spartizione anche
del sale dei caicchi e delle viscere dei parti
mentre pieno di unghiate appariva
il cielo del mattino
e per l’aria violentata mulinava lo scudiscio.
S’era compiuta la sutura
tra lo sparviere piemontese
e la natrice viperina valpadana
con i siculi grifoni e le bestie delle tane.
E un ragno enorme calava
con i suoi tentacoli
sopra l’abisso
a risucchiare i morti
mentre persino la luce si sfilacciava
e dalle strade saliva in architettura
il pianto dei fanciulli.
Così la cupola del silenzio
si spandeva per le case
e nebbia minacciosa stritolava l’anima.
E ognuno davanti ai suoi occhi
vedeva lo sgomento della terra
e i giorni sinistri che avanzavano
e cadevano da un corpo all’altro
ingoiando anche le parole sussurrate.
I popoli sentono tuttavia
quando la quiete il vento sconquassa
e dalla terra sgranano inaspettati
uomini veri chissà come.
Invisibili per tempo e tempo
s’accendono come miti
e incuranti delle bestie vanno
nel sole che piove luce e fuoco
e per i cuori partecipi del loro splendore.
Molti, confusi dalla primavera che tarda,
fuggono la terra
o indossano lo scialle nero delle prefiche.
No, fratelli, i nomi di quelli no!
Siamo noi sparvieri? grifoni? viperini?
Vogliamo lasciare nuda la Madre
e serrate le labbra del tradimento?
Avete già scordato Rocco, Cesare,
Giovanni e Rosario e Paolo,
e Pippo e Mauro e Walter?
E Carlo, il generale
che morì anche per amore?
E Massimo e Marco
che il diritto del lavoro uccise?
E Giacomo e Piersanti finiti per politica?
E gli altri umili servitori
che non si tirarono indietro,
nemmeno davanti all’assenza
che ha sempre le braccia spalancate?
Bocche riempite di terra e di solitudine
cui li abbiamo abbandonati.
Le mani nere dei secoli
hanno stretto le loro gole
ma non oscurano la memoria
e le loro parole.
Per esse nascono e crescono i sogni
e il risorgere astuto
e l’irriducibile brace della giustizia
sotto la cenere delle menzogne
e il bere ogni giorno
al calice della verità
come mezzo di battaglia
e di libertà strumento e di vittoria.
Ma assonnati e apatici
ci vorrebbero i furbi poteromani
tra pareti d’immondizia televisiva
come in un reticolato di ferro arrugginito
più aguzzo dei cocci di bottiglia
sopra sempre lo stesso scalcinato muro
che convinse a chiuderci dentro o evadere
a cavallo dei quattro venti della fuga.
Anch’io, fratelli, non capivo perché
mi dicevano di non chiedere la parola
di non cercare nel movimento la cucitura
che salda la madreperla del mare
alla rabbia che monta
come la spuma del vino
quando la rivolta raccoglie
gli stracci della giustizia e della libertà
e bandiere fa
del sogno straziato della Madre.
Fino a quando una sera di nascosto
venne a cercarmi il dubbio
Mai vi toccò il pensiero che l’ape deflora
e fatica crudele per il suo miele?
E che la rondine alza la sua casa
anche per un solo giorno?
E che tutti gli animali lottano
e uccidono pure
per difendere la libertà che sentono
e non sanno cosa sia?
E mai avete pensato cosa le nostre mani
dischiudono nelle notti
dove si accoglie il viandante
senza chiedere il nome?
Considerate i fuggitivi che vengono
alle terre più a sud del nostro Sud.

Cosa guardano
appoggiati ai parapetti della speranza?
Sognano altra vita, vedono
catene infrante, fiutano
l’odore sempre duro della libertà
oltre il sale che penetra nelle ossa
e con i volti della fame
accusano la giustizia negata.
L’ignoto l’ingoia, l’ignoto li vomita.
Fuggitivi senza voce, senza nome,
braccati da cani
che ad ogni legge arrotano i denti
nelle sale di velluto rosso
dove s’ammutolisce persino Dio.
Abbiamo dimenticato i nostri occhi infantili
che miravano la grande statua
che si erge oltre la nebbia in America
come un’anguria nel deserto?
Anche noi l’ignoto ingoiò d’un sorso,
e ci vide morire e sopravvivere
figli dell’oceanica terra
con nome e con parola.
Avrebbe dovuto difendere
l’armatura del diritto la terra sfortunata
che vide sparpagliarsi per le strade
ratti neri che arrivavano, come oggi, a rodere
persino i pilastri di ferro
della carta del popolo
avvinghiando viperini le colonne dello Stato.
Come, fratelli?


Chi andò
per le nostre contrade di storia e sole
organizzando odio con i sorrisi?
Chi ci abituò ogni giorno
a tracannare il calice dell’ira ?
Chi di fantasie vuote e paurose
nutre le menti con oscura dose venefica
trasformando i sogni in strumenti d’angoscia?
Alimentarono mai i fiori della morte
quelli che, quando aurora fa ridere il giorno,
avevano già le mani nella farina
per impastare il pane del popolo
perché chi nasceva non vedesse
calpestata la vigna e il calore del grano?
Ogni cosa era intrecciata di speranze
possibili e nuove come gli innesti,
e la neve copriva leggera i semi
e covava la ricchezza della primavera,
e il mare gonfiava d’argento
gli occhi dei pescatori,
e il vento imbevuto di nubi
inzuppava sapiente la terra.
Fu allora che il cuore s’aprì alla mia
alla nostra giornata difficile dura
aspra a volte.
Eravamo una nave tra i marosi,
mozzi che legavano e scioglievano gomene
riparavano sartie, impeciavano paratie,
e guardavano fiduciosi al ponte di comando
gli ufficiali che lanciavano gli occhi
oltre l’orizzonte dove mettere la prua
per la navigazione sicura.
Era lì ritto monolite Alcide
e con lui don Giuseppe da Genova e pure Palmiro
e poi Giorgio da Pozzallo e Ugo da Palermo
e Sandro ed Enrico e Aldo da Maglie, il martire,
e altri splendori che amavano la Madre!
Ritornò poi la casta con al seguito
il lerciume,
infame cancrena di anime degradate,
ormai indecente sozzura,
con occhi che mostrano il vuoto
veleno
fauna diversa di periferia
che tutto per denaro addenta
persino i filari neri dei morti
in attesa di sepoltura;
e anime contratte condannate al silenzio
fuggivano e andavano, senza guida,
di casa in casa a mendicare qualche parola
e di tradimento in tradimento
arrivarono ad innalzare sfolgorante
la menzogna canterina quale fragore
di cascata sopra un’ora quieta.
Non ricordo un inverno cosi freddo
anche al Sud
nella Sicilia dei miei amori.
La pioggia cade e cade
incessante come una cantilena
e riempie lo stivale
e la terra sembra sprofondare
sotto il peso dell’aria
e le fabbriche fanno silenzio
sudice scalze immobili
e aumenta il numero
delle gambe sfaccendate per i viali
e la calca dei rifiuti
e le mani tese
e gli sguardi dove trascorrono ombre strane
e un volo di farfalle nere.
Tutti i fuochi hanno spento
e nessuno più, per ignoranza,
sa usare l’acciarino, perché
nelle tenebre più facile il coltello scintilla
e il laccio silenzioso come una garrota
succhia con il gorgoglio del sangue
anche l’ultimo respiro agli occhi
e alla bocca (illusi!) la parola verde
come il calore dell’acciaio
contro la corruzione della ruggine.
Ma le lune trascorrono come le notti di ghiaccio
e l’acqua delle fonti,
e i semi sotto l’inverno viaggiano nascosti
per non morire prima di fiorire
perché prudenza dettano i serpenti
quando pure il sole si fa nero
e occorrono uomini dal cuore maturo.

23 febbraio 2009 Orazio Nastasi
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"I popoli sentono tuttavia
quando la quiete il vento sconquassa
e dalla terra sgranano inaspettati
uomini veri chissà come.
Invisibili per tempo e tempo
s’accendono come miti
e incuranti delle bestie vanno
nel sole che piove luce e fuoco
e per i cuori partecipi del loro splendore."


ORAZIO se permetti tengo tra le mani questo seme e ti ringrazio dei tuoi versi ,ambrosia in quell'arsura ,perchè il racconto non è mai vano se tra il letame spuntano miracolosa-mente i fiori ,bravo ,ariele

il 19/09/2009 alle 09:35

Non c'è bisogno di commento. Le parole non basterebbero... Mi ha commosso, molto... tanto...
I semi viaggiano nascosti è più che una speranza... è verità, solo così potranno fiorire, a dispetto dei pericoli che stanno sopra.
Ciao Fabio

il 19/09/2009 alle 17:33