Maschera e schermo
non di qualsiasi cosa
come la valigia pronta o la vita
che potrebbe ad un tratto cambiare
levandoci da un imbarazzante momento
e da un apparente color cielo sereno
siccome non sono specchio
e nemmeno cose che si rivelano o spiegano
non ci riflettono
o ci chiedono da dove vengano.
Quando sembra che stiano lì per caso
come un libro aperto sull’apparente libertà di leggerlo
apparentemente perché le pagine possano dire altro
da ciò che il lenzuolo o il cuscino tacciono
l’inchiostro ha l’odore di chi ci ha accompagnato
nel bene e nel male
ha curato febbrilità e febbri, ci ha stretti
e difesi da anonime ostilità
da ombre azzurre o rosse che non sapevamo rimuovere
e dall’uomo nero inconsapevole di essere nel nostro pensiero.
Infine eccoli riaffiorare a caso
da un lineamento sfuocato, dallo strano
comportamento, dal matto
garbato, scusandosi del ritardo
ebano levigato dalla propria mano
con troppe domande nel loro linguaggio
di sale, tenace, incapace di essere diluizione
o una variazione del latte
esattamente uguali a come li abbiamo dimenticati
in una foresta a parte.
Nessun richiamo, nessuna tentazione di entrare
nussun giardino di rose da non calpestare, niente monte
mondano, niente rimproveri di chi non ci ha aspettato;
solo un variare del colore apparente a dirci che non siamo nel niente
che siamo o saremo felici, che gli amici
resteranno amici, che le minacciose radici
non diventeranno maschere
decorazioni di rifugi o tane calde come appena lasciate.
Il viaggio era inevitabile.
E non siamo mai a casa.