Le vesti appese ad asciugare
come stagni di sudore sulle mie guance.
Il caffè capitombola nella tazza.
Mi confondono le pedate dei bambini
di sopra,
così come l'ovatta trattenuta in questa
casa, sollievo mi serba.
Lì all'angolo, dove adesso un pesante
pentolame s'aggroviglia,
c'era una gabbietta, e in essa un canarino,
che non amava portarsi di fronte alla luce,
ma che di sbieco, quasi,osservava ogni raggio,
e se ne insaporiva.
Piume gialle d'ordinanza,
gli conferivano una maestà cui non teneva.
La sera insieme ci scambiavamo le impressioni
della giornata.
"A scuola com'è andata?"
"Al solito. Tu a casa, cos'hai fatto?"
"Ho canticchiato, verso mezzogiorno."
"Ah; e non sei contento?"
"No,la gola non tiene più, e la voce
dopo pochi secondi arretra.
Succede sempre così".
Dai vetri allungati va flettendosi
il rilievo di una montagna sorda.
Una cornice di uccelletti le svolazza
intorno, non sapendo che essa non
è più in potere di ascoltare
le loro visioni notturne.
Le parlo anch'io;
delle scorrerie del tempo,
delle cortine sollevate,
di certe indennità che la vita non paga;
della matassa illussoria dentro cui veniamo al mondo,
e da cui,filo dopo filo, ci svincoliamo;
delle sparute sortite che fa la gioia,
che da reclusa viene a dirci che esiste
una libertà,
un canto che si propaga fino ai vertici di
una montagna sorda.
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