Detergo il mio volto allo specchio,
pensando.
Fra echi di mobili sconnessi,
il luccichio d’una pietra al collo.
Profilo che non s’attarda, il suo,
infiorettato come una foto-ricordo.
-Come stai?
Ho freddo; non qui sulle braccia.
La falla è più profonda, più lento
il disgelo.
-Ti va di parlare?
Di cosa.
-Di quello che vuoi.
“ I pini litigano col vento,
il cane della vicina mi ringhia
al balcone.
E io stringo forte mia mamma.”
- Dove l’hai trovata?
Di là fra le tue cose.
Cascano come gemiti,
certe piogge d’inverno.
E per ogni nuvola gonfia, c’è un pezzo di terra
più morbido.
Liberazione. Parità.
Il rumore dell’auto ingolfa il vialetto.
Essa già va.
-Hai pianto?
Ho chiuso le palpebre, teso le ciglia,
stretto la bocca; è lo stesso.
-A cosa hai pensato?
A niente.
Allo specchio lei stessa si trattiene
talmente dentro che in parte vi entra;
- C’è qualcosa di tuo qui.
Cosa?
-Lacrime.
Non le mie.
-E di chi?
Ad attendere fra le ultime linee,
ci si stanca e dispera più degli altri.
In prima linea il nemico ti spara sulla fronte,
o tu abbatti lui.
Ma al di qua siamo la mente e il rauco silenzio,
e presto o tardi s’invidia chi non c’è più.
Mamma?
-Cosa.
Ho pianto.
- Perché lo tenevi nascosto?
Non so. Timore.
- Di cosa?
Di non trovarti più.
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