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Pubblicata il 22/02/2011
Fin nelle fondamenta del mastodonte nuovo
stormo socievole, alla metropoli
gracchiando insiti finchè notte non nasce;
e stagna dissonanza per le arterie.
Inverno lontano
oscura le acque, e per le piazze pena,
che ad annusarla la mente si indurisce.
bolidi sfrecciano, bus arrancano;
moti irruenti, rivali, separati
nel vincolo d'asfalto fan gimcana,
pur annoiando il loro tempo peggiore:
tu spensierato tra la folla gli occhi chiudi;
compagni, voli,
t'immergi in allegria, il godimento incontri;
ammutolisci, e poi rinasci
nel giorno e di tua morte polpa dura.

Embè, quanto è diversa
la vostra abitudine alla mia! Fastidio e pianto,
verso l'anzianità senza famiglia,
e tu vecchio tacchino, odio,
rinuncia marcia dei consunti anni,
io so la cura ; così a te
quasi m'appresso;
presente e regolare
all'ultimo mio loculo,
resto del mio morir l'inverno.
Questa tenebra che lascia spazio all'alba,
disabitua travaglio nei sobborghi.
Senti nel pumbleo un forte strombazzare,
misto al frusciare dei canneti,
che ristagnano negli angoli il quartiere.
Indumenti usurati dall'oblio
vecchia straniera
evita le strade, e nelle baracche si rinchiude;
e non guarda ne è guardata, tristo il cuore.
Io aperto in quella
prossima porzione entrante di città,
nessun lavoro odiato
scorre nel presente: e intanto il suono
mischiato ai gas di scarico
mi strazia il grigio incollato ai casamenti
prima della notte burrascosa,
alzando appare, e niente dice
che trista vetustà forse più vale.

Voi, stormi rapaci all'alba
che il sole non vi bruci queste penne,
incerti dei vostri piumaggi
sarà dolo, di snaturato seme
ogni vostro disgusto.
A me, se in gioventù
la troppo ambita uscita
non cerco d' incontrare,
quando ciarliera bocca all'altrui pube,
a lui vuotò l'immondo, ed il passato tempo
di quel doman chiaro e gioviale,
che resterà dell'avversione antica?
di questi attimi? e di voi tutti?
ben rallegro, di rado,
e consolando avanti guardo.
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