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Utente eliminato
Pubblicata il 02/11/2003
All’Italia
Italia mia
questo è un canto concepito
nella notte di questi anni di spari
di luttuosi anniversari
di rapine concordate
al Sud
dove tre soli splendono
su una gente bestemmiata
e al Nord
dove persino all’anima
s’appiccica la nebbia
e rende scuro il giorno
e confonde la vista e l’intelletto.

Chi il tuo ventre di sole
violentò con strazi
ripetuti fino al cielo
e una coppa ubriaca
di consumate lacrime
preparò per il tuo popolo
tuttavia operoso e stanco
di scoppi d’ira
e di sputi sopra i giuramenti
mentre nutrivi la speranza?

Se fu uno scontro improvviso
di zolle planetarie
o una coalizione di notturni fuochi
e d’infuriati nembi
l’animo si sgretola come un muro
di melagrana.

Ma sotto questo cielo
d’azzurro solare
l’ombre delle case
parlano
e il pudore deflorato
e l’ansia corrosa dei cuori
confusi di rabbia accumulata.

Tutto grida che un’epoca è finita
e un vento aspro di burrasca
crolla le cupole dei palazzi
e scardina con lampi
le congreghe del tradimento.

Ci fu un tempo tuttavia in cui
il ritorno alle radici del nome
inseguì il tuo popolo.

L’inizio fu inebriante.
Quale fiore di cristallo
esploso in atomi impazziti
un autunno di rabbia
e di sventura
ruppe il cerchio d’apatia.
Era la carica del sudore dell’aratro
delle torce riarse degli antri dello zolfo
delle pareti abbaglianti degli altiforni
delle tute blu dei pani di metallo,
erano i nuovi dizionari di parole
concrete quali radici d’ippocastani
che avanzavano
e portavano nel sole
la tua nuova veste, Italia mia.

Non avevo mai visto
ardere così anche le notti
e delirare le stelle
e rivoltarsi i cimiteri
e lo spettro del mare
con artigli di schiuma.

Misero chi in quei giorni
frementi di sogni
non s’avvide del fumo determinato
ad invadere il labirinto della coscienza.
Infami gli intelletti
che si accartocciarono
in foglie riarse
all’ombra di cipressi equinoziali
e non videro il naufragio
e la miseria innecessaria
inventata dai voraci poteromani
cui legarono muti la voce
a giustificare la spiga non nata
e le grandi necessità.

Di tradimento in tradimento
i padri prostituiti
con opera fine di orafi
contribuirono a frantumare
il mosaico incendiario.

Chi continuò con cieca fiamma
si consumò in uno scontro
di mitraglie
senza più cuore
senza più ragione.
Così tra la nenia delle lupare
e il rosso delle brigate
sanguinarono le case.

E la sera spegnendo la luce
prendevano sonno anche le idee
e i conversari,
e avvolti dal fumo
retrocedemmo
in un alveo colmo
di consumo oppiaceo
che innalzò nuove dighe
e una muraglia di fantasmi
anno dopo anno
e vi aggiunse il frascame
della giovinezza indifesa.

Nessuno di noi osava sazio
dire una parola
nessuno di noi che soffrimmo
questa storia
scelse di suonare la campana
dell’arringa.

Ahi terra arata a sangue
deserta di difesa
contro le bestie segrete
che seminarono angoscia
e morte
e allungarono l’unghie
persino sopra il pane nero.

Volti luminosi tuttavia
sfidarono i giorni della menzogna
e il lampi dei poeti non fuggirono
di là della luna gialla
e avvolti di resistenza
portavano nel canto
chiaro il progetto
di una avvenire carico
di fraterna convivenza.
T’amarono, mia patria,
senza sciupare nulla dell’amore.

E noi che in quegli anni
ci nutrivamo alla loro mensa
anche noi restammo sorpresi
dal ritmo del telecomando
e bastò un solo giorno
per rimanere alla fonda
e vedere la loro scia
sparire all’orizzonte
e consumarci gli occhi
e il cuore
nell’ansia di un’ancora
che ci tirasse fuori
dalla calma piatta
degli astuti normalizzatori.

Che accadde? che accade?
Dei morti che amammo
nessuno è rimasto in vita.

Terra desolata, sangue nostro,
scossa da lacrime pesanti,
ora i traditori sono rotolati
ai tuoi piedi crocifissi
per i tuoi fianchi di spuma
e il tuo corpo di spighe di rame
lasciando il deserto nella coscienza
bruciante ancor più
per la fede devastata.

Ora un inverno cupo avanza
e i giorni,
che chiedono con voce rotta,
ancora in pugno la speranza,
la raccolta di cuori
forti contro le tenebre,
si accorciano sempre più
lungo i tuoi solchi inzuppati
di pianto rabbioso.

Ma se per le strade d’ombre di luna
la divorante paura della fame
è tentata di trasformarsi in furia
o in abiti scuri di necrofori
questo è anche canto di parole vere
che ama il coraggio delle donne
dure quale roccia nel travaglio
e la forza del pane
che squarcia le zolle
per i campi stremati di fatica.

Figli di questa terra ricca
di gloria e di vanghe pazienti,
guardate come sono scomparsi
gli ulivi nelle terre di Balcania
e fioriscono le mitraglie nei campi
irrigati con il sangue dei fanciulli;
guardate il martirio della libertà
che brancola per le distese di muschio
della grande madre Russia
che tornava a palpitare nel cuore
del popolo schiacciato
dal passo sonoro di stivali sordi.

La notte non oblia le nostre disgrazie
ma ascolta le voci roche delle officine
e il sospiro della terra mai stanca
e il vento che agita i roseti
e la vita che scorre sotto la neve più amara
per cantare al sole
con la bocca dolce di primavera.

Per questo cantiamo ciò
che non vogliamo dimenticare
e le parole brillano come l’ultima stella
della notte che muore
per spalancare la strada al sole.

12 novembre 1993
Orazio Nastasi
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