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Pubblicata il 10/07/2003
Trionfo della Morte
(piccolo omaggio a T.S. Eliot)

Questa notte ho sognato il silenzio.
Come i nobili delfini presi nella rete
dei pescatori di sardine
sono questi sogni,
come i cimiteri degli elefanti:
senza senso.
Senza senso è la greve notte intessuta
di stelle morenti,
stillante l’essenza lacrimosa dei petali
che seppero del domani,
misteriosamente.

I
Ho sognato il silenzio delle chiese spogliate
dagli uomini feroci,
dove i santi dileggiati volgono ai portali
gli occhi di gesso dipinti di celeste, come
un’ebete guardiano di greggi, stretto ancora dal sonno,
che contempli senza capire
il recinto dell’ovile divelto dai predoni.
Il pastore non ha udito.
Il silenzio, ch’io ho sognato,
generò le campane, ed esse
tributano canti al silenzio,
non più sagge o più stolte
delle innumerabili genti che danzano
sulle rosse lande infinite,
che invocano col canto la pietà
dai muti feticci di pietra.
Silenzio,
nei cimiteri degli elefanti.
Meglio per te non essere nato, Giuda
che volti col piede i riversi cadaveri
irrisorti. Essi attendono in silenzio,
come esuli, di varcare le nascoste frontiere
della polvere.

Nella terra eterna del silenzio germogliano
in questo solo giorno
l’olivo e il roveto, e candide larve
si traggono a stento dalla polvere
e gemono il Santo Sepolcro,
come Urbano morente.
Casto cavaliere, che seminasti le lacrime
d’una dama dai capelli d’oro,
non troverai la croce dell’avo ingannato
nel deserto del silenzio,
dove le rocce d’Hattin si levano,
feticci di menzogna.
L’avo appartiene alla sabbia, per la sabbia ti generò,
come le aride regine generarono
per i crudeli gnomi neri
prole inconsapevole.
Silenzio,
ai vespri di questo solo giorno
di speranza, nella sabbia di Gerusalemme.

Primo rintocco. Ed ebb
e suono d’organo.
Sic transit.

II
Non spero più che il nobile delfino
laceri la rete dei pescatori di sardine.
Non spero che lo piangano le genti
che hanno dimora sopra il mare.
Non spero che lo piangano le genti
che hanno dimora sopra la terra.
Sono il nobile Delfino, sono morto a Crècy.
Un uomo senz’anima usurpa
il mio trono sgretolato, combatte la mia guerra.
Ma non importa.
Io sono morto a Crècy.
Mi trafisse l’arpione
d’un pescatore di sardine.
Ora galleggio nella terra, con i delfini arenati.
Mi divorarono gli occhi le creature striscianti,
e tutto è nulla.

Ma ricorda, fratello,
tu che trionfi, incoronato d’alloro purpureo,
nella ferita vermiglia del tramonto,
tra le rovine che furono città eterne
per sette giorni
e le zanne d’elefanti che si levano ricurve
dalla rossa terra, a monito di nulla,
sotto i sanguigni sguardi dei selvaggi
che s’ingrassarono ai piedistalli dei patiboli,
ricorda: sei soltanto un nume avvinazzato.
Gli uomini sono in verità, in verità
macchie di grigio nauseante, come insetti,
nelle danze della Morte.

Perché, uomini morti, mentite ai numi dolenti?
Perché, uomini morti, vi fate gioco della loro ubriachezza?
Devono forse patire in eterno, i numi vomitati dal Tempo
nella rossa landa senza fine?
O uomini morti, gelosi dei fuochi fatui!
Io sono il Prometeo sepolto, che porta
nel grembo squarciato l’ossa d’un aquila.
Nei miei occhi risplende il focolare freddo
della casa dei morti. Risplende,
nelle mie orbite di teschio,
vuote di tutto.
Silenzio,
dove il deserto ha in retaggio le tombe di pietra
e Ra s’abbandona nel grembo d’Osiride.

Secondo rintocco. Ed ebbe suono di tamburo.
Sic transit.

III
Sulle fosse che restarono scoperte
per la morte del becchino
si libra la diafana Bellezza dei Poeti,
decapitata come gli spettri di Scozia,
al pari delle regine di Francia.
Il celeste viso e il crine d’oro
stanno nelle bisacce dei Sapienti,
come il capo strisciante, morto e mortale,
dell’assassinata Gorgone.
Voi, schiavi sapienti,
in catene sotto il cielo ardente:
non è questa la Grecia d’Apollo.
In questa vuota landa di Scizia s’immolano
larve d’uomo ad un feticcio
che non ha nomi né responsi da pronunciare. Invano.
Voi, schiavi sapienti, siete solo
morti gonfi di terra, e le vostre voci
vomitano polvere, che danza,
con la vita delle marionette, quando si leva
il vento.

Attendiamo in silenzio
il giorno in cui i vivi moriranno,
poiché abbiamo veduto come fummo generati.
La laida Gea schiacciò il ventre
del miserabile Urano,
generando bestie,
come la scura meretrice
nella stamberga di Charles, il barbone.
A Parigi, la città disfatta e corrotta
come i cadaveri viventi
decapitati.

Io sono il saggio Acheronte
che scorre senza grida
tra le rocce che si sgretolano, in un letto
di chiodi, nei luoghi
dove è santo lasciare la speranza.
Sento il nocchiero dagli occhi spenti
traghettare per sempre l’ultimo canto
del poeta che non ha voce
per chiamare al silenzio.
Ma il muto nocchiero obbedisce.
Silenzio,
nella polvere di rocce sgretolate,
dove i sacri canti echeggiano il silenzio,
nell’eterna, limpida Dite.

Terzo rintocco. Ed ebbe suono di cetra.
Sic transit.


IV
È morto l’amore
della dama dai capelli d’oro.
È morto della morte silenziosa
che porta via le marionette logore.
In scena, le marionette sbattono le teste
con sordo rumore di legno: così sono i baci
delle marionette.
Cantai i capelli di paglia
delle marionette, da bambino.
Nel buio del crepuscolo,
parve a qualcuno che cantassi
una dama d’oro.
Come avrei potuto?

Casto cavaliere,
nei deserti ad oriente dell’oriente,
dove cerchi il cuore dell’avo, ci sono solo
gelide ossa d’un Drago,
senza fuoco né sangue. Ci sono
solo le misere lucertole
tra il sonno e la veglia sulle pietre frantumate.
Qui non c’è gloria, non c’è amore.
C’è il sole del meriggio
che freddo scalda le lucertole.
Un crudele gnomo nero
pretende la dama dai capelli d’oro,
I germogli delle lacrime
li divorano le greggi, indifferenti.
Dissetati, casto cavaliere,
del sole del meriggio,
come le miserevoli lucertole.
Nient’altro, prima del tramonto.

Pastori d’Arcadia, mentre vi struggete,
il lupo preda gli agnelli.
Pastori d’Arcadia, pensate alle greggi,
che generano agnelli per i lupi.
Le ninfe sono morte o non sono mai nate.
Le greggi vivranno per qualche inverno ancora.
Pastori d’Arcadia, pensate alle greggi,
che generano agnelli per i lupi.
È il retaggio dei padri, un retaggio
di greggi, d’inverni e di lupi.
Santo è lasciare la speranza.
Silenzio,
nel meriggio,
silenzio sulle greggi che generano,
indifferenti,
sulle lucertole che non invocano amore
dal sole muto del meriggio.

Quarto rintocco. Ed ebbe suono di flauto.
Sic transit.

V
Videro orbite vuote di teschio
levarsi un nero feticcio di pietra
dal mare di polvere rossa,
come le contorte sanguisughe
dalle pozze del sangue.
Qui non c’è nulla
delle cose d’uomo.
Qui non c’è voce.
Qui nulla ha senso.
Qui dormono le candide larve,
morte ed immobili,
e le copre un bozzolo eterno
di polvere.

Ultimo rintocco. Ed ha il suono del silenzio.
Sic est. In omnia saecula.
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Che poesia negativa, non mi piace forse perchè io non sono religioso

il 29/03/2006 alle 10:37