“Il gabbiano”, ricordo che si chiamasse così il locale.
Era lungo il naviglio che mi apprestavo, e vi entrai. Era già sera inoltrata. L’interno aveva un arredamento nautico, vecchia maniera, ricordava antichi vascelli che si avventuravano nell’oceano in cerca di fortuna. Nell’aria odore di menta e liquirizia.
Dal fondo della sala veniva musica.

Il disorientamento è un privilegio, a volte.
Miles Davis, con una voce negli intermezzi più roca, nicotina che avvolge le corde vocali e le increspa. A tratti le accartoccia. Quella nicotina mi era entrata subito nelle vene, l’avevo respirata mentre raggiungevo il mio tavolo, me ne nutrivo ad ogni nota. Volta al termine la serata, ero sul punto di lasciare il locale quando mi accorsi che due occhi neri mi fissavano nel buio. Forse non si erano mai staccati dalla mia figura.

Con un movimento dell’indice mi fece segno di avvicinarmi.
Quel dito era un uncino irresistibile.

- Sai suonare qualche strumento?, mi chiese.

- No…risposi.

- Canti?

- A volte.

La tromba in una mano e l’altra sul mio fianco.
Lasciva scese sul mio gluteo e, istintivamente, la bloccai afferrandola con la mia ma la sua pelle, sotto il mio palmo, era una lunga statale pulsante di vita, le sue dita affusolate si strinsero alle mie carni.
Il suo sguardo era talmente penetrante da indurmi ad un tuffo nei suoi occhi e in quegli occhi mi ci tuffai.
Un viaggio.
Insieme prendemmo fiato e ci inabissammo in un’apnea infinita.
Riemersi, mi svegliai con la nicotina che mi riempiva la bocca e con la sua mano ancora tatuata sul mio culo.
Ero un fuoco.
La stanza un posto vuoto.
La mutandina, febbricitante, scoppiava.