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Pubblicata il 04/03/2010
La bilancia e la falce
Prima che tutto cominciasse
fu l’innocenza dell’acqua
e il fuoco che sgorgava
dal ventre della madre
senza resistenza senza dolore
e le tre dimensioni del sole
che annichilivano l’ombre
fin dentro gli abissi del mare.
Poi venne il profumo
della zagara e i limoni
e cominciò a sgranare la spiga
e la cova dei pollini.
Tutto era latte e miele
e nascondeva il sangue
il volo dell’aurora
e lungo il tuo corpo
i fiumi correvano
dalle altere solitudini
dove nutre la prole regale
l’aquila.
Fiorito di zolfo e metalli
il cuore zeppo di fusione
non impedì dell’ulivo la forza
né la maestà della quercia
né il lento andare
delle vacche del Sole.
Splendevi
anche sotto le tempeste
e andavi
prediletta dagli dei
e dall’amore.
Ridevano solari come la melagrana
i tuoi figli
e dalla coppa della luna
bevevano la frescura della rugiada
confusa di aromi di grano
e di ricche lane di armenti.
E di te s’innamorò la Bellezza.

Nessun giorno passava senza
labbra alle mammelle
e mani all’impugnatura dell’aratro
fino a quando
sulla tua pelle di sole e sale
non mettesti la porpora di Tiro
e sotto la neve notturna
non covasti la fame e il lutto
e il fiore misterioso del fato
non s’aprì all’albero del sangue
con il dolore d’un urlo ghiaccio.

Tutti che osarono
guardare in faccia il vento migrante
sempre tornarono alla maternità
immutabile del pane
e tra le tue radici si scontrarono
la terra dissanguata e
il seme primordiale
i vomeri tremanti e i fichi d’India
con la lenta voracità dei vermi
e i frutti mali e senza nome.
Così di notte in notte
là dove montagna si curva
e beve alle sue acque
nacquero i rampicanti
camaleonti e gattopardi
e invasero le case e succhiarono il sangue
persino ai muri di sostegno.
Ma negli antri anneriti dalle fucine
nel buio banditesco e solitario
s’accesero tuttavia
le lanterne della giustizia
e sconvolsero l’agitata folla
dei pipistrelli.
Per la prima volta parlarono le parole
e si udì il tradimento
e persino il pianto delle pietre.

In qualche luogo dell’anima scorre,
un fiume solitario
e fluttuano pensieri e sogni
che temono
come una tempesta eccessiva
quelli del disprezzo e dei furti
delle piccole avventure dei fanciulli.
Così, per denunciare,
di canto in canto io vado
per le tue strade dove più non cresce il pane
e conto i passi lenti
sulle colline dove riposano i giusti
né si dissetano le colombe
e con appetito di morte s’aggirano
le bestie
e calzano scarpe con chiodi
che misurano gli emicicli
e come vino tracannano ragione e fede
che cadono
come un grappolo d’uva morta
nel letamaio delle loro gole.

Verrà l’alba
con in mano la bilancia
e una falce.

14 gennaio 2009 Orazio Nastasi
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questa poesia-trattato esoterico è stupenda...c'è tutto, ha il sapore della rivelazione, la fame di giustizia, un analisi profonda, poetica, del dolore e della sua genesi..

il 07/03/2010 alle 06:57