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Pubblicata il 27/10/2006
Malva fiorita ce n’era dappertutto
e le ginestre riempivano l’aria in tutta Italia
ma quando arrivammo giù, al paese,
tutto sembrava più bello e profumato.
Predammo fiori rubandoli a noi stessi
e facemmo a noi e a loro mille promesse
“ queste erbe un giorno io le ho avute
sono un dono di Dio per la salute!
e senti l’aria come si respira
mista com’è piena di fiori e mare,
qui si può campare all’infinito,
guarda da Cecasole l’orizzonte
vedi da te, fin dove può arrivare.”
Mia moglie mi guardava impressionata,
correva insieme a me in ogni prato,
coglieva ogni fiore che poi, essiccato,
avrebbe ornato e profumata casa
a mille chilometri, in Piemonte.
Diceva di si, pensava all’amarezza
di chi campa sperso dal suo paese,
era cortese, mi catturò la brezza,
l’ha presa ed aveva la pretesa,
di nutrirmi con quella anche al ritorno.
Curava con la mia, anche la sua malattia;
quella di chi nasce in un posto e muore lontano
costretto all’esilio, con tanta nostalgia,
lei, che come me è un’emigrante.
Portammo a casa, all’ora del rientro,
tant’erba secca che diventò poi fieno,
pezzi sconosciuti di anfore d’un tempo,
pietre quasi amiche, prese in una maggesa,
papiri della storia del paese.
Ma ci accorgemmo che quell’odor di malva,
il cappero in fiore, l’aria salmastra,
avevano curate tante ferite
e quella voglia di piangere, persa in un prato.
Al ritorno in Valsangone, sfatti i conti,
ci ritrovammo certi che lì dietro
avevamo saziati i sentimenti
che in altri giorno erano di vetro.
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