PoeticHouse - Il Portale dei Poeti e della Poesia
Pubblicata il 08/05/2002
Quando ancora le frotte di categorie
Si tuffavano nel latte dei mari dei concetti nascenti
Un Dio si volle Verbo, e nacque

Similemente, quando il fiato di millenni
Ebbe sbiadito l'usata gloria di questa invenzione,
Dio, insperatamente, vide germogliare
Il seme che dipartitosi dal Suo intelletto
Si era incastonato in uno dei mondi possibili

L'uomo
L'uomo si annunciò ai cieli e alle sottane degli alberi
Con il ruggito bruciante di chi all'aria
Si corrode e al tempo stesso prende vita
Per l'uomo e la donna
Fu una nuova storia, eccitante all'inizio

L'invenzione del fuoco, e la scoperta della ruota
Furono un paio di belle trovate - Dio, compiacendosi, guardava

E non appena gli umani intelletti,
Slacciati dalle necessità le più immanenti, pensarono
Cosa naturalissima e sommamente buona,
Ad usurpare il loro Creatore fingendo di adorarlo
La Civiltà si mise in moto
E cominciarono a sorgere e abolirsi le Torri
E i campi furono arati e i colli divelti

Dio, distrattamente, annusando, approvava

Ma la corsa sfrenata all'eccellenza
Su tutte le piste portò rogne - e uno spettacolo
Che da allora fu innumeri volte visto:
Le sale furono incendiate, abbattuto il ciclo delle Torri
E i campi e i Giardini spazzati dall'onda
Ma vista la Terra di nuovo brulla come all'inizio
L'uomo che non vedeva per sé un domani
Buttò ghignando una sfida al destino,
E ogni cosa ancora risorse

E l'eccellenza venne sfiorata, la Scienza esperita
Le Torri vennero rifatte più alte
L'Arte, delirante, scese in piazza
E suonando la tromba e la chitarra
Spalancava a tutti le alte porte del più vasto tra i mari
Dio godendosi il fil di fumo dei sacrifici,
Con la nonchalance di un dandy - aspettava
E la freccia s'imprimeva ogni volta più vicina al bersaglio

Chiome al vento, gli occhi sbarrati, infossati
Gli stracci che gridano vendetta - tutti li abbiamo visti
Artisti, Poeti, Filosofi, questo carrozzone
A ogni nuovo più eccelso ciclo di civiltà
Mandava a farsi fottere le grandi conquiste
Dei loro ingegnosi antenati - che orrore
Questi pazzi, spinti troppo in là
Dall'orgoglioso ingegno ch'era le stimmate della loro specie
Avevano fatto in un lampo di baleno
Quello che i loro vecchi avevano voluto lampada ad olio:
Raggiunto Dio

Dio fu visto, e sempre più da vicino
Finché chi mirò il Suo volto corrugato dagli Eoni
Tornato sotto il cielo lunare, impazzì

Grazie a questo manipolo di coglioni, il Piano
Tracciato da generazioni di Umanità
A tavolino, con cura sacrale, era svelato e mandato all'aria
Dio, saputo che l'ultimo dei Suoi
Miserabili prodotti, passo dopo passo
Aveva edificato una somma Babele per sfiorarne le altezze
Non se ne compiacque

Dio, dapprima, mandava catastrofi
Ma l'entropia con le poderose braccia della sua ruota
Non aveva risparmiato nemmeno Lui - che ora
Si vedeva affiancato e raggiunto dalle oscene propaggini
Di quei piccoli sicari che come tante formichine
Aggiungevano ogni giorno un gradino
Alla scala per raggiungerLo alla schiena

Dio, allora, angosciosamente cercò uno specchio
E come Si vide allo specchio, Si capì
E morve

Dissòluto nella mirabile vasta moltitudo delle Sue polveri
Si eclissò agli immutabili pilastri dell'Universo
Come un'esplosione scrosciante di stelle disfatte
La Sua tomba fu in terra d'Apeiron,
Testimoni Nietzsche e il bell'Arturo

Ma risolto il problema esteriore ne era frattanto nato uno interno
L'uomo, sedotto, lungo le autostrade dei secoli
Dai mille meccanici ammennicoli che era andato escogitando
Per dare il là alla sua scalata, ne fu rapito
E oramai che i più spregiudicati pazzi da sanatorio
Avevano svelato l'illusione ontologica
Che si era mangiata gli incensi dei loro padri,
Gli altri non seguivano - i loro membri
Si eccitavano innanzi a i tubi, valvole e scalini a manovella

Uomo, questa è la tua storia
Detta in ditirambi che fossero brevi - hai lasciato
Ogni pista, e fattene una tua, l'Abominio,
Esso persegui, folle ti decreti verme
Vi fu un tempo che volesti Demiurgo
Questa è la pista

Ma, poeti, non siamo uomini da piangere piste lasciate
Eppure ai fines d'Asia e d'Ungheria, le elleniche colonne
Così aggraziate, e i vani mausolei dei varii mistici
Ci guardano - seduti sul burrone, scossano la testa

Essi hanno trovato un numero d'idoli minori
Vi è il buco del culo, da non disprezzare
E vi è la lacrima di godimento ch'è il gioiello ben cesellato
Il dolce Calamo, consolatore, tra questi è il più potente
Ma noi cosa?

La Poesia fu una santa strada, più irta e alpestre di altre,
Che molti santi e meccanici batterono, in Secoli andati
Oggi, abbattuta nel fango da chi intese resuscitarla
E reinnalzata ad alti fini da chi disse d'averla smarrita nel fango
Essa pare il rifugio dei minorati e delle tredicenni

Eppure il sacrario del nostro Genio, quando vogliamo
Ci dà l'Arti e gli Strumenti con cui adibirci ad essa, in attesa
E speranza fallace che questa pista veda un qualche riconoscimento
Basta dirsi poeti, e aver fede nel Verbo
Avremo un intero campionario d'espedienti
Da squassare in faccia al nostro secolo:
Locuzioni, Rettoriche, Inventarii, Ditirambi
E dovranno popolare i nostri versi un fiume gioioso di
Marionette, trambusti, stendardi, binocoli, autocertificazioni,
Ordigni, balene, lampi di sagacia, sostegni, trampoli,
Spellati, disossati, vedute di città da cartolina o da inferno
Che la nostra penna impazzita, o meglio una Tastiera
Secondo le maniere ragionatamente assurde d'un waltzer
Porrà e disporrà sui cartigli a proprio piacimento;
E non v'è da disprezzare alcuna tradizione,
Sionitica, Inglese, Turcomanna, carmi Austro-ungarici
E cazzate secondo Novecento, i ritmi a cui disseteremo
Le trame della nostra lingua saranno Giamaicani
E vagamente Gotici, Irlandesi poi, in gran sprezzo al purismo
Di chi vuole Vigore Mediterraneo ad ispirare
I propri grugniti

E vorremo tutte l'Alchimie - aspireremo, deliziati, fumi ed àlcoli
Nei cantucci di strane stamberghe - in fondo, non vi è motivo
Per cui la chimica organica non possa soccorrerci - e
Suggeremo come amanti impazziti tutti i tomi delle Accademie
Che siedono in ogni parte dell'Europa
Sprezzando l'ovvio, saremo geni e dei girovaghi
Ci addobberemo di lanterne ed itifalli, loriche e losanghe
Il nostro metro sarà fondamentalmente libero,
Antigienico, musicale, decadente e irrinunciabilmente semitico
E quando gireremo, schive trottole impazzite,
Nel nostro mondo angusto e infame, i cui muri
Sono le pagine delle riviste, sputazzeremo inchiostro a tutta randa

Come il più esperto miscelatore
Di colori algebrici nelle sue vocali non saprà mai fare,
Noi allegri come disperati giocheremo coi punti diacritici
E distillando alla luce degli Ioni una collana di suoni purissimi
Inventeremo nelle nostre fucine nuovi Verbi, nuovi aoristi
Adatti ad ambire l'Infinito - trarremo parole a forza di braccia
Dai glossatori bizantini e dall'armadio della nonna
Ceselleremo infine un lessico
Dialettale, creolo e splendidamente farraginoso
Fatto di ogni disusata cazzata che spiri un'anima
Che saprà le pietre del Partenone
Come le tombe nascoste dei mistici Indiani

Così le sere
Con la Sagacia come guida, e fidando nella vecchia Ironia
Mediante congegni predisposti ad arte faremo
Prillare a velocità altissime il mappamondo
E stretti gli uni agli altri in un tugurio,
Con il vino negli occhi,
Spareremo un cannocchiale verso i cieli
Più alti, dove fondali di seta
Rifrangono gli accecanti vagiti delle stelle

Saremo tutti un popolo, ed un'Arte

E buona ventura a noi, contenti
Che ceneremo addosso alle usate tavole, quando
Uno di noi, fattosi Verbo
E il Verbo fatto Prassi
Si risveglierà dal sonno fra le braccia dell'Eternità
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