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Pubblicata il 19/01/2005
Sono tornato a rivedere il mio paese,
saltello come un passero
da una casa all’altra, da un ricordo all’altro,
queste mura si reggono soltanto per amore.
Dove sono gli uomini, le donne,
gli asini, i muli, i carretti cigolanti,
l’odore del pane appena fatto,
dove sono i fanciulli
che correvano felici sulla neve?
Nelle case è rimasto qualche vecchio
con il rosario in mano
a contare i giorni rimasti.
Nella mia casa nativa
non abita più nessuno da trent’anni,
tutto è caduto del tutto,
è morto anche il numero della porta,
io giro tra sassi e le spine,
una pentola, una scarpa, una finestra,
cerco almeno un ricordo intagliato nel tempo.
L’orologio del paese è fermo alla solita ora.
La mia vecchia scuola elementare,
una lavagna bucata, banchi rotti,
ero talmente somaro
che la maestra aveva pietà di me,
ancora adesso ho gli occhi
di chi è ripetente della vita.
In questo paese sono nato io,
dove gli sguardi si perdono,
dove solo la roccia conosce
il segreto del pianto,
dove i castagni trattengono
con un respiro il cielo.
I miei genitori mi accolsero come un re
il mio trono una culla di stracci
appesa a un filo,
da quella famiglia
non poteva che nascere un ultimo,
educato a pane e coltello,
ma con l’orgoglio di essere ultimo.
Potrei anche piangere,
chi mi vedrebbe,
chi mi ascolterebbe,
nel vuoto paese dell’infanzia,
quando viaggi nei ricordi
piangere è l’unico modo
per non perdere il contatto con la realtà.
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