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Pubblicata il 17/12/2001
Ogni volta che mi avvio verso lo studio
la metafora mi suona da preludio.
Paragone un po' più chiaro non lo trovo
per spiegare a tutti quanti cosa provo,
e mi vedo in un tranquillo e buio campo
ad aspettar guardando il cielo un forte lampo.
Quell'esempio si capisce che è evidente
quando osservo poi quell'essere splendente
che se pur, per breve tempo, mi conduce
abbagliandomi con tutta la sua luce.
Chiudo gli occhi e mi ritrovo in un momento
in quel campo, dove infuria un forte vento.
Una nube che mi sembra tanto furba,
e potente, a tal punto che mi turba
va danzando, sotto quel fondale scuro
con le altre, a formare quasi un muro.
Io rivedo, aprendo gli occhi, quel mistero
in colei al quale volgo il mio pensiero,
e per quanto la conosca così poco
non fa estinguer dentro me un caldo fuoco.
Così quel lampo che nella notte tutto accende
lo vedo in lei, che nell'oscurità risplende
e come un fulmine, lucente ed improvviso
fa comparire, per un attimo, un sorriso
che si tramuta in un ricordo come tanti
memorizzato tra mie gioie e miei rimpianti.
Ma come poi finiscono le favole
vedo svanire quella scena delle nuvole
e quel sorriso che mi è parso così breve
che sembra sciogliersi pian piano, come neve.
Così cammino, torno fuori, mi allontano:
il tentativo di tornar nel campo è vano;
di fuori il sole mi risveglia, dice -È giorno-
e la sua luce si diffonde tutta intorno.
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