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Pubblicata il 01/06/2023
Il ricordo più bello di mia Zia Rosa è quando da bambino, in vacanza nella cittadina natia di mio padre, la vedevo creare gli strascinati. Partiva da una pallotta di impasto, la premeva e la rotolava allo stesso tempo, fino a cavarne una "biscia" che manteneva a sinistra sul tavoliere. Quindi iniziava la "produzione in serie". Con gesto ripetuto e spedito, e per me magico, premeva e modellava col pollice il capo destro del serpentello e, aiutandosi con una torsione del polso, insieme lo staccava e "strascinava" verso destra, dove si accumulavano man mano le neonate orecchiette. Poi mi mostrava farne una sola, grande il doppio delle altre, e mi diceva: "Questa è l'orecchietta della fortuna. Toccherà solo a uno di voi. Chissà chi sarà?..."
Anni dopo, quattordicenne, ero in vacanza come di consuetudine in quel luogo del Sud. A fine agosto si sarebbe rientrati al Nord, dove io mi sarei nuovamente sorpreso nel ritrovare tanto verde, dopo un mese d'abitudine alla vegetazione un po' paglierina della Puglia. Quell'anno, non so come fu, la zia Rosa sarebbe venuta con noi, forse invitata da mio padre, suo fratello. E il mio posto sulla Fiat Seicento l'avrebbe preso lei, insieme ai miei e alle mie due sorelle. Fatto sta che venni imbarcato sul treno per Milano, con l'istruzione di scendere a Parma, per poi salire sul locale per Brescia e da lì prendere il solito trenino per il nostro paese. Ora io credo che per noi attuali Androidi Bionici Internauti del ventunesimo secolo rimarrà un mistero insondabile come io abbia potuto portare a compimento tutto ciò senza nemmeno l'ausilio di almeno uno straccio di cellulare Nokia di prima generazione. E per giunta viaggiando di notte.
Nello scompartimento mi trovai con una famigliola bergamasca. Non ricordo i componenti, ma una giovane donna tra loro, saputo di dov'ero, mi disse che a volte frequentava il Dadi Club, discoteca allora a la page, ma ora inghiottita dalle sabbie mobili dell'oblio. Poi, più seriamente, mi pose all'incirca questa domanda: "Ma tu hai preso qualcosa per il colera?". Io candidamente risposi: "No". Ero un ragazzino e non ero certo io a gestire la mia situazione sanitaria. Rimasero un po' perplessi, ma il viaggio proseguì tranquillamente.
Quell'anno, il '73, ci fu infatti un' epidemia di colera, forse scatenata dalle cozze, con epicentro nel Napoletano e una qual certa diffusione al Sud. Ma non ricordo la portata di tutto ciò.
Quindi scesi a Parma, città slow food, da dove però partiva purtroppo uno slow train per Brescia. Sembrava un gregge di carrozze in fila indiana che si fermava a brucare ad ogni stazioncina di quella via crucis. A Piadena fu il clou dell'attesa, forse si mise a chiacchierare col contro-gregge. Avevo sete. Aprii il mio valigino, e ora apro anche una parentesi. Era una piccola valigia di materiale rigido, non ben precisato, forse imparentato con la fòrmica, ma la superficie era tipo buccia d'arancia, non so dire bene. Le chiusure erano metalliche. Per aprirle occorreva premere simmetricamente due bottoncini, spostandoli di lato, sganciando così altrettante piastrine rettangolari che si ribaltavano all'insù. Sembrava la reazione della gamba di un paziente, picchiettata dallo psichiatra appena sotto il ginocchio. Ne sto parlando al passato, ma lo conservo ancora, ci tengo ricordi e oggetti cari. Dunque ne estrassi una bottiglia, che in origine era per il vino, ma mi fu data piena d'acqua per il viaggio. Alcune persone su d'età, che mi avevano forse già adocchiato, squadrato e inquadrato a loro modo di vedere, borbottarono in dialetto: "Ardil, isé zuen el se porta za 'l vì fin de zó là". Traduzione: "Guardatelo, così giovane si porta già il vino fin da giù là".
Non credo che la commiserazione e l'espressione "Signore, perdona loro perché non sanno ciò che dicono" fossero già nelle mie corde allora, ma questo è il sentimento acerbo con cui li soppesai.
Infine, credo a mezza giornata, arrivai a casa. Lasciai il valigino e corsi al campetto a giocare spensieratamente a pallone, aspettando i miei che viaggiavano di giorno.
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