Nelle fredde sere d'inverno,
mi faccio nebbia
e ad uno scompaio coi confini della città,
mentre m'innalzo, lento
ad una dimensione altra,
e divengo alterità.
alzo gli occhi al cielo,
come portato dalla paura a cercare
un aggancio sicuro, severo nel suo stare
come Giove da sempre s'affaccia al mio guardare
o come luna,
che m'illumina l'andare.
spesso nulla trovo
e i pochi lampioni che da sempre costeggiano la via
sino a casa,
mai la mia
si spengono ad uno ad uno,
proprio all'infittirsi delle mie paure.
tutto è buio,
ed io neanche m'affatico nel cercare un'alba
mi pare pure quello inutile,
pigro come sono,
mi piego alle mie resistenze mutile,
eppur qualcosa freme,
il passo sbieco,
il cercare l'altro,
io,
che del vivere mi son sempre detto stanco
ad un cenno suo di cedimento subito m'arrampico
sui suoi generosi margini,
fragili e sottili
una voce lontana,
l'irrompere sicuro d'una bicicletta rumorosa sulla strada
il bambino ridente,
il borbottio del vecchio
niente che non fosse già esistente, sia chiaro
eppur mi pare vivo,
o forse lo è al bambino,
dal tempo suo sottratto
scarpe sempre troppo grandi,
mai lo spazio per l'astratto.
o cecità ridente,
m'hai insegnato un altro vivere per sempre.
che venga pure la stagione più calda,
che irrompa l'autunno,
con la sua ambra
sul crepuscolo assente d'inverno
io mi sento pronto,
intrappolato nell'eterno.
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