quella mattina mia madre mi svegliò di buon’ ora. Dovevamo impastare insieme la bambola di pane. Aveva atteso che raggiungessi l’età della ragione affinché apprezzassi quel dono fragrante e dorato.
dovevo assistere alla preparazione, altrimenti non avrei riconosciuto la bambola destinata a mutare di forma e di colore a causa della cottura.
“Ecco!”, Disse mia madre… pregustando una sottile soddisfazione.- “Questa mattina giocheremo a costruire una bambola di pane!”.
così facendo, staccò dalla massa lievitata, dalla quale poi avrebbe ricavato i pani, una manciata di pasta quanto una grossa arancia. Mia madre la lavorò con maestria, muovendo le mani come due farfalle.
la pasta, dapprima ruvida ma ancora calda, divenne ben presto lucida e bianca, ed emanava un odore particolare.
come se fosse esperta nell’arte della didattica, commentava ogni gesto prima di compierlo, per facilitarmene la comprensione
“Ora formeremo la testa.” Disse, schiacciando la pasta e ricavandone quasi un visetto di bambola.
al posto degli occhi affondò due grossi chicchi di uva passita, quindi incise il nasino con un pizzichino e con un coltello disegnò la bocca con gli angoli rivolti all’insù, ad imitazione di un sorriso. Abbozzò anche una semplice capigliatura, intrecciando delle striscioline di pasta e attaccandole alla testa, con una lieve pressione delle dita.
“Ora costruiremo il corpo.” Disse poi, – infondendomi un interesse ed una gioia che non avrei più dimenticato. Abbozzò un piccolo tronco, al quale aggiunse delle piccole braccia, che terminavano con ulteriori appendici, somiglianti a due mani di bimba. Mia madre spiegò anche che era inutile dotarla di piedini, perché quella bambola non avrebbe mai camminato: essendo di pane, era destinata, prima o poi, a finire nel mio pancino.
così disse esattamente, rivelandosi abile pedagoga e fugando l’innocente, visibile ,disappunto apparso nei miei occhi. Per molti anni , amorevolmente, impastò per me una bambola di pane, anche se non mi alzai più all’alba per vedere come le mani di una mamma compiano magie, al pari delle fate.
lei, però, continuò a lungo quel mirabile esercizio, fino a quando la panificazione del tipo industriale non si diffuse in maniera capillare anche nei piccoli centri come il mio paese, dedito all’agricoltura che era regnata incontrastata fino all’avvento del colosso d’acciaio chiamato “Italsider”.
così composta e continuando a darle ulteriori e rapidi tocchi, quasi ad infonderle anima, oltre alle fattezze umane, la adagiò sulla lunga tavola infarinata.
giacché c’ero, decisi di assistere alla lavorazione del pane, ed io vidi solo allora con quanta fatica, ma anche con quanta abilità, lei formò i grossi pani, che costituivano l’approvvigionamento familiare di una intera settimana.
la mole di pasta scoppiettava sotto le mani di mia madre, la quale usava come fulcro l’interno della mano nel punto in cui si unisce al polso, affondando, a pugni chiusi, il carpo in profondità e risalendo rapidamente. Scandiva il suo lavoro con un ritmo regolare che mi affascinava. Passava, poi, ora la mano sinistra ora la mano destra sulla pasta, formando lunghi cordoli di circa mezzo metro; poi sul più bello, voilà, li arrotolava su se stessi imprimendo loro una mirabile rotondità che, finché durò l’innocente stagione dell’infanzia, paragonai al guscio di una grossa lumaca.
poi li schiacciava quel tanto che bastava e con amorevole cura adagiava i panetti sulla tavola, segnando, su ogni pane, un segno di croce col taglio della mano. Suggello di una sacralità ormai da tempo perduta nei riguardi di questo prezioso alimento dell’uomo.
copriva, poi, come un figlio addormentato, i pani con una coperta, per non interrompere l’azione degli enzimi contenuti nel lievito, che avevano già operato il primo, sperato, prodigio.
di lì a poco, la solerte fornaia, avvertita per tempo, ritirava le tavole del pane da numerose altre case. Realizzando autentici capolavori di equilibrismo, le fornaie si caricavano le pesanti tavole, accomodandole ora su una spalla, ora sulla testa.
qualche ora dopo restituiva alle famiglie il pane fragrante, dietro un esiguo compenso che le bastava per vivere dignitosamente. Molte bimbe, come me, attendevano il loro dorato e profumato panetto, con fattezze di bambola. Allora, bastava così poco per gustare l’autentico sapore della felicità, che oggi ci si affanna a cercare nelle cose più effimere, invano.
- Attualmente 4.66667/5 meriti.
4,7/5 meriti (6 voti)