Giorni taglienti,
chi mai fu il demiurgo addestratore,
ch’a svergognarmi gli anfratti d’anima,
compiaciuto crebbevi, ignobil e celato?
vano è lo scandagliare nervoso,
le ceneri di un cuore inappagato,
solo m’aggiro ebbro,
nelle stanze orfane di sole di me stesso,
di gestualità deformi e ubriache schiavo,
rinascere null’altro è ,
che il pascersi di un desiderio semantico,
nel guano dell’inesprimibile
e dell’irraggiungibile.
nauseabonda e d’orrido cosparsa,
è la scia di un naviglio di cui forse mai davver ebbi governo,
non v’è orazione,
che a me s’offra a stalagmitica consolazione,
sorda verbalità
che non sale a un Dio stracciato dall’anima.
vivere è unicamente,
concedersi al morbo del trascinamento,
fino all’esalarsi supremo,
di un mare che più non partorisce
onde di senso vacuo e illusorio.