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Pubblicata il 26/01/2015
mi donasti dell’albero
ciò che fu mio inganno,
inganno della nuda indecenza
riscoperta sul tuo corpo
assoldata copia vera
dei muscoli gonfi e quieti,
ti rigirai sul fianco teso,
ombra dei rami la cecità
che sfavillava dei timori,
mi copristi del tuo pudore
e svenne la sensibilità
d’adorare il sole appena nato.
ciondolò poi la mia pena
inerme tra le gambe nude
e rammendasti la ferita
che denudava le mie coste.
un’aureola di foglie s’alzò
a disperdersi tra luce e vento,
pungolati da dita adunche
lasciammo le orme sazie della colpa.
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E ancora la cecità di quel primo giorno benda gli occhi di molti. La mano di lei pressa sul costato...alle volte per alleviare, alle volte per far più male. La vita va avanti nei suoi innumerevoli atti e, tranne qualche buon interpretazione, il resto è paccottiglia. Questo ci è dato avere....a noi l'orere di migliorare. Arlette

il 26/01/2015 alle 10:47

"....l'onere."

il 26/01/2015 alle 10:48

Quanto male ne discende Decio da quella interpretazione ancestrale della Genesi, di certo scritta e tramandata da uomini e per uomini, in quella colpa che di genere che non abbiamo mai saputo prenderci, e che quindi ancora e forse sempre non avrà redenzione. Versi intendi questi tuoi che spingono a guardarsi dentro, noi uomini. sergio

il 27/01/2015 alle 06:04

Graditi versi giungono al mio sentire visivo! Sir Morris

il 27/01/2015 alle 09:17